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“Le parole che SENTO” è uno spazio di condivisione di testi per noi significativi, che risuonano con il nostro essere educatori e il nostro vivere e far vivere l’arte.


Il rapporto tra di processi di apprendimento e relazione affettiva

Conversazione con Fabrizia Alliora a cura di Silvia Biferale

La collaborazione con Fabrizia Alliora, psicoterapeuta psicoanalista esperta di infanzia e adolescenza, ha arricchito profondamente la percezione e la consapevolezza del nostro ruolo di educatori musicali e insegnanti di musica.
C’è un tema a noi molto caro sul quale la Alliora conduce sempre la nostra attenzione negli eventi formativi dell’Audiation Institute nei quali insegna:
il rapporto tra processi di apprendimento e relazione affettiva.

Fabrizia Alliora
Possiamo partire dal presupposto che lo sviluppo cognitivo e affettivo del bambino coincidono.
Il bambino, infatti, cresce nel suo sviluppo emotivo e relazionale e allo stesso tempo nasce il pensiero; la mente si apre alla conoscenza se vive un’esperienza di profonda e totale appartenenza affettiva. Il movente dell’esplorazione è la fiducia e l’apprendimento è quindi frutto del legame e della relazione. Per comprendere meglio questo possiamo seguire quello che la natura da subito ci insegna. La natura infatti ci dice subito di cosa ha bisogno l’essere umano per crescere: l’essere umano per crescere ha bisogno di una casa.
Qual è la prima “casa”, il primo luogo concreto cui si appartiene?
La risposta è evidente: l’utero. Senza la casa-utero il feto non potrebbe sopravvivere.
Avere una casa, un luogo da abitare, è dunque fin dall’inizio indispensabile per la sopravvivenza fisica dell’essere umano.
Dal concepimento alla nascita, l’utero è dunque il primo ambiente, il primo ambito di appartenenza, ed è lì che inizia la vita relazionale del bambino. Possiamo tenere l’immagine di uno spazio che ospita anche dopo la nascita.
Il neonato infatti può vivere – dal punto di vista fisico ma anche psichico – solo se alla nascita ritrova immediatamente un altro luogo che lo raccoglie e si fa “casa” per lui. La mente e il cuore dei suoi genitori, insieme alle loro braccia, sono questo luogo; ma, come l’utero, questo “luogo” deve flessibilmente sapersi modificare, deve saper crescere col bambino.
Essere educatori è un’esperienza non solo affascinante ma anche profondamente trasformativa.

Silvia Biferale
In che modo questo legame si realizza e prende forma nel tempo?

F. A.
La caratteristica fondamentale della persona è il cambiamento.
Crescita significa cambiamento, trasformazione.
I luoghi, intendendo il rapporto come luogo dentro cui la persona vive, devono essere in grado di portare questo cambiamento.
Se il “luogo” che la persona “abita”, e quindi quel particolare rapporto in famiglia oppure a scuola, non è in grado di portare il cambiamento e di “allargarsi” in base ad esso, è un luogo destinato a non essere più abitato, un luogo dove l’abitare diventa stretto, fastidioso, disagevole.
Il rapporto, il tipo di rapporto che offro al bambino, non è solo un luogo che deve essere in grado di reggere il cambiamento, ma è anche strumento e condizione dello stesso. Non solo luogo dunque, ma anche condizione. Il rapporto col bambino non è mai statico.
In quanto adulto io lo “ospito”, lo “porto”; lui cresce, cambia, ed io, piano piano, rendo questo rapporto capace di portare la sua crescita. In sostanza si cresce insieme.
É suggestivo il termine “luogo”, perché il rapporto, la relazione, è la vera casa in cui la persona abita.
In ogni relazione educativa siamo quindi dentro a un’avventura in cui c’è chi guida e c’è chi segue, ma con la coscienza che si cresce insieme. Rimanendo nella metafora uterina: se l’utero non cede al cambiamento, cioè non si allarga seguendo la crescita del feto, si spacca; ma anche la relazione “si spacca”, cioè ne soffre se l’adulto, sollecitato dalla crescita del bambino, fa resistenza al cambiamento di sé.
L’apprendimento non è quindi solo del piccolo che sta imparando, ma è anche dell’adulto. Questo apprendere nella reciprocità è un aspetto che mi ha sempre colpita e commossa. La relazione educativa ci chiede di metterci in gioco con tutta la nostra persona; del resto, sappiamo bene che sa guidare chi sa anche seguire.
In questa dinamica abbiamo però un collaboratore d’eccezione: il bambino stesso!
I bambini infatti ci aiutano ad aiutarli ed è questa la ragione per cui dobbiamo seguirli, imparare da loro, in una dinamica complessa che non chiede un ragionamento o la ricerca di strategie, ma lo stare dentro al rapporto con tutti noi stessi.

S. B.
Possiamo dire che in questo modo costruiamo una rete di sicurezza che permette al bambino di affrontare ciò che ancora non conosce?

F.A.
A questo proposito provo a introdurre l’importanza dell’esperienza della mancanza nei processi di apprendimento, esperienza fondamentale affinché l’apprendimento accada. Proprio lo scorso sabato si faceva questa riflessione con i musicisti del corso20, perché la musica è una continua esperienza di mancanza e di presenza (pausa-suono in alternanza), e osservare questa dinamica a livello psichico è molto importante per il particolare insegnamento che andranno a proporre ai bambini.
Lo psicoanalista W. Bion, esplorando i processi mentali alla base del pensiero, afferma: “il pensiero nasce là dove il seno non c’è più”.
Questa osservazione è una provocazione potente per chi educa: la cultura odierna tollera con fatica l’esperienza dell’attesa e della mancanza in ogni ambito, non solo in quello educativo. Ma sappiamo bene che è proprio l’esperienza dello “spazio vuoto” che muove il pensiero. Tu stessa Silvia, nel tuo libro La terapia del respiro, scrivi: “Gordon mediante l’audiation restituisce il giusto peso a fattori importanti nei processi cognitivi quali il piacere della conoscenza, lo sviluppo del pensiero come necessità di affrontare l’assenza, il silenzio”21. Imparare a fronteggiare l’assenza non è forse la stessa cosa dell’apprendere a stare nell’esperienza della mancanza di cui stiamo parlando?
Oggi viviamo in un clima culturale in cui sembra essere l’adulto in primis a non reggere la naturale fatica che il bambino fa ad aspettare e a non avere tutto subito; ma offrendo soddisfacimento immediato non sosteniamo adeguatamente la capacità di attendere e di imparare a chiedere.
L’esperienza della mancanza compare per la prima volta alla nascita: nell’utero infatti i bisogni venivano soddisfatti ancor prima del loro insorgere. Al momento del parto, il feto è costretto a tener testa a una notevole quantità di stimoli esterni, variazioni di temperatura o di pressione atmosferica; i punti di riferimento ai quali era abituato, quale il battito del cuore della madre, vengono meno di colpo, e, per la prima volta, si trova a vivere l’esperienza dell’ “avere bisogno di”, dei bisogni: la fame la sete il freddo. Ora si trova in uno stato di necessità mai sperimentato prima e si trova anche a vivere, per la prima volta, l’esperienza della discontinuità in contrapposizione all’esperienza di continuità sperimentata in utero. Ma sappiamo che l’unica condizione perché si attivino le risorse è permettere all’altro di provarci non anticipando le soluzioni. Del resto, anche la madre più responsiva e più capace di affettuoso contenimento non è in grado di comprendere e rispondere sempre prontamente e adeguatamente al proprio piccolo.
Quando il bambino è molto piccolo e “non sa” di che cosa ha bisogno, è la madre che, grazie alla sua capacità di contenimento e di rêverie 22, in un certo senso gli “presta” la sua capacità di pensare, così che egli possa sentire interpretato adeguatamente il proprio bisogno. La madre di solito comprende ciò di cui il suo bambino ha bisogno (fame, sonno, coccole), ma può anche permettersi di non capire perché sappiamo che con questo suo umanissimo “non capire” offre un’opportunità impagabile allo sviluppo mentale del bambino: costringendolo a “spiegarsi meglio” lo costringe anche ad attivare le sue risorse.
A questo proposito Winnicott afferma che per la sua crescita il bambino non ha bisogno di una madre good, ma good enought; una madre cioè capace di sbagliare e insieme capace di rimettersi in gioco.
Paradossalmente, se ci fosse una madre capace di capire tutto subito non farebbe un gran servizio allo sviluppo mentale perché non favorirebbe quella che abbiamo chiamato esperienza dello spazio vuoto, l’unica condizione perché si attivino le risorse e il pensiero fiorisca.

S.B.
Questo ci aiuta molto a capire in che modo il processo di sviluppo dell’audiation sia favorito dall’esperienza del silenzio alla fine del canto. Nel silenzio il canto non è più udibile e proprio per questo il bambino comincia a ricrearlo dentro di sé, a ricercare ancora quell’esperienza sensoriale di ascolto che tanto lo aveva toccato e comincia a farlo attraverso il corpo con una corsa, con un gesto o con la voce.

F.A.
Questa esperienza che osservate fornisce un nutrimento impagabile allo sviluppo del pensiero.
Il bambino comincia a fare esperienza, nella sua dimensione corporea, di una sorta di reminiscenza che ha custodito a livello inconscio e che può e potrà andare a recuperare: “il corpo mantiene iscritta l’esperienza sensoriale anche quando non è accessibile al ricordo e la custodisce, disponibile a riattivarla al momento giusto”23. In assenza dell’esperienza stessa – il silenzio di cui tu parli –, egli la riattiva dentro di sé a livello corporeo, mentale e affettivo. Ma a questo punto abbiamo capito che è un artificio disgiungere le esperienze: oggi sappiamo che l’esperienza percettiva si inserisce a pieno titolo nel processo di conoscenza.
Mi hai raccontato del tuo nipotino di un anno che all’ultima lezione di musica sembrava distratto e poco partecipe fino a quando, salito in macchina, ha cominciato a cantare sorprendendo tutti per la continuità che aveva mantenuto dentro di sé. Ciò che ha sperimentato è stata proprio la sua capacità di recuperare l’esperienza fatta poco prima. Soltanto la nostra miopia ci potrebbe far pensare che la musica fosse perduta perché non agganciata a una risposta immediata. A questo proposito tu stessa scrivi: “il silenzio che segue alla presenza percettiva del suono crea lo spazio e il tempo per una ricostruzione nella mente e nel corpo del bambino della condizione vissuta in precedenza”24, proprio in quel silenzio il bambino inizierà a sviluppare l’audiation, ovvero cercherà di ricreare quelle modificazioni sensoriali che l’ascolto gli aveva procurato, cercherà di sostituire dentro di sé l’oggetto perduto, la musica non più presente”25, e ancora: “l’emozione, è la madre del pensiero, emozione e pensiero sono un prima e un dopo che rappresentano i due tempi del funzionamento psichico. Due tempi sempre presenti e intimamente legati da una reciproca interazione che tesse la trama mai conclusa del lavoro della mente”26.
Silenzio, attesa, mancanza, discontinuità, sono parole che ci riportano alla sostanza della relazione educativa, relazione in cui siamo chiamati a non “accontentare” i bambini ma a incoraggiarli a camminare guardando in alto, senza paura.
Mia nonna diceva spesso: “perché ne valga la pena, ci vuole un po’ di pena!”. Certo il bambino protesta di fronte alla non immediata soddisfazione della sua richiesta; non ne vede il “di più” che custodisce ma fa solo esperienza della privazione che comporta. Ma, saper dire: questo gioco che desideri lo possiamo chiedere a Natale o per il tuo compleanno, adesso, non si può. Adesso possiamo fermarci davanti alla vetrina e pensare a come potremmo giocarci insieme, muove il livello del desiderio, e quindi il pensiero. Prendersi cura dell’aspetto simbolico delle cose materiali avvia il decollo dal livello del bisogno al livello del desiderio. Questo significa che l’adulto che non accontenta il bambino rispondendo immediatamente al suo bisogno, sollecitando l’immaginazione e la rappresentazione muove le risorse, e quindi nutre il pensiero.

S.B.
Quanto dici mi sembra centrale nella relazione educativa, potresti spiegarci meglio la relazione tra sviluppo del pensiero e nascita del desiderio?

F.A.
Quando abbiamo una cena a cui teniamo molto, ad esempio una cena di Natale o un compleanno importante, ci prendiamo molta cura della preparazione della tavola (tovaglia, tovaglioli, fiori, presentazione dei piatti). Questo significa attendere l’evento preparandoci ad esso e non precipitandoci a soddisfare il nostro immediato bisogno: se ho fame mi siedo e mi nutro il prima possibile. Questo attendere l’evento prendendomi cura dei suoi aspetti simbolici, trasportato nella dinamica psichica significa dare legna da ardere allo sviluppo del pensiero. Altrimenti prevale la fame e la priorità diventa mettermi comodo e nutrirmi. Viceversa è il desiderio che sostiene la mia capacità di attendere. Se non ci fosse il desiderio, se non ne valesse davvero la pena, non ci metterei tutte queste energie, se ne vale davvero la pena, mi adopero per non prendere scorciatoie, che mi farebbero soddisfare subito il mio bisogno, ma che mi priverebbero della gioia dell’attesa e dell’incontro che sto aspettando con tutta me stessa.
La mancanza genera desiderio.
Spesso l’adulto è in difficoltà a tollerare la fatica del bambino e si sostituisce: faccio io, faccio prima. Non è un giudizio sull’adulto: viviamo tutti una vita infernale in cui il tempo per la cura della relazione sembra essere sempre più risicato; tutti noi abbiamo bisogno di essere richiamati al fatto che i nostri bambini, in fondo, non ci chiedono di essere accontentati ma di essere stimati nel loro pensiero, di stimarli capaci di attendere e di domandare.
Certamente sta a noi modulare adeguatamente l’asticella: non chiedere troppo ma nemmeno troppo poco.
Che cosa ti aiuta a modulare l’asticella? La pazienza e l’umiltà di guardare e ascoltare il ritorno che il bambino ti dà: se si scoraggia vuol dire che ho chiesto troppo, se si siede, forse, ho chiesto troppo poco. I bambini ci aiutano ad aiutarli!

S.B.
Torna fortemente la centralità della relazione affinché la mente si apra…

F.A.
Torna quello che tu stessa scrivi: “La cura della relazione educativa e didattica fonda le sue ragioni nella consapevolezza ben nota che nessun processo di apprendimento può inaugurarsi nel bambino in assenza di una relazione affettiva”27. È dunque evidente che il movente dell’esplorazione è la fiducia data alla realtà interpersonale e oggettuale di essere carica di un significato che è possibile esplorare.
Ecco dunque il punto: che cosa favorisce il gusto esplorativo?
Lo favorisce un altro bisogno fondamentale dell’individuo, che si può chiamare “gusto del legame”.
Se l’individuo non ha interiorizzato un legame di fiducia non ne soffre solo la sua vita interpersonale, ne è colpita anche la sua capacità di esplorazione.
Questo è vero all’inizio della vita, ma per analogia è vero in tutti i rapporti, non solo per le figure fiduciarie del bambino nella famiglia, ma anche nella scuola: quando questi rapporti di fiducia si stabiliscono positivamente favoriscono le capacità esplorative, quando presentano delle difficoltà le capacità esplorative ne risultano inibite. Quindi l’adulto deve garantire contemporaneamente la qualità dell’unione affettuosa (offrire protezione) e il sostegno nell’esigenza di esplorazione (lasciare spazio).
Tutto questo favorisce quello che Winnicott chiama “accesso creativo alla vita”, sottolineando il gusto dell’incontro, il desiderio di iniziativa che il bambino ha di fronte alla realtà se relazioni iniziali “sufficientemente buone” gli hanno permesso di stabilizzarsi in un atteggiamento di “fiducia di base” verso gli altri e verso il mondo. Sulla base di questa fiducia, comincia quella che è stata definita con una bella espressione, “l’avventura amorosa col mondo” (Mahler) che è alla base di ogni incontro e di ogni conoscenza: il desiderio di conoscenza si pone all’interno del desiderio di relazione, con se stessi, con il mondo, con gli altri, con il passato e con il futuro.
Questa affermazione è evidentemente densa di conseguenze sia per il rapporto educativo che per l’impostazione di ogni tipo di insegnamento.
L’apertura con cui il bambino si apre a conoscere parla di una sicurezza di base che non significa aver avuto a che fare con educatori perfetti, ma educatori presenti sì. Educatori che lo hanno tenuto per mano e gli hanno detto: “io ci sono, puoi contare su di me. Nel tuo cammino di crescita potrai incontrare ostacoli e pericoli, ma non sarai mai solo”.
Le fiabe su questo sono illuminanti: i loro personaggi incontrano pericoli, avversità, prove, ma c’è sempre qualcuno a cui possono guardare o domandare; anche nei momenti di solitudine più drammatica, dentro di loro c’è almeno un ricordo di qualcosa di buono a cui possono desiderare di tornare.
Il punto non è la difficoltà, ma essere soli nella difficoltà. L’unico problema vero nella vita è la solitudine.

S.B.
Per non perdere di vista ciò che tu dici non bastano due occhi e due orecchie.

F.A.
Non possiamo perdere di vista che, a prescindere dal contesto educativo o di insegnamento nel quale ci troviamo, il rapporto con il bambino o il ragazzo deve restare di natura asimmetrica.
Anche se il bambino è il più prezioso collaboratore, l’asimmetria deve essere mantenuta. Il bambino, per sentirsi al sicuro e sicuro, ha bisogno di sapere che lui e l’adulto non sono pari, mai.
Questa questione introduce un’altra parola centrale nella relazione educativa: la parola incontro. L’educazione è un incontro attraverso il quale, nella reciprocità, si cammina nella conoscenza di sé.
Tutte le esperienze di insegnamento possono, potenzialmente, essere trasformative?
Se è accaduto un incontro, si.
Un incontro, anche breve, sé è stato un incontro non si dimentica, perché ti ha cambiato; non sei rimasto lo stesso.
Spesso non ne siamo così consapevoli, per cui dobbiamo avere l’umiltà di stare dentro un gruppo di lavoro che a questo ci richiami.
Uso la parola umiltà non in senso morale, ma in senso mentale: l’umiltà di chi sa essere pronto a ricevere anche quello che non prevede, pronto a riconoscere l’imprevisto, pronto a riconoscere ciò che non si aspetta.
Il punto è che a volte abbiamo la mente già satura di quello che ci aspettiamo e quindi il “non previsto” non lo sappiamo riconoscere e vedere; ma questo è umano.
Cosa ti salva da questo?
L’umiltà di sapere che altre menti, altri occhi, altri sguardi possono farti vedere ciò che tu non hai saputo vedere e ancora non vedi. Per queste ragioni non possiamo pensare di svolgere il nostro lavoro da soli, occorre che il gruppo nutra l’esperienza del singolo.

S.B.
Questo è un tuo appello che io apprezzo moltissimo perché credo che faccia bene a tutti noi considerare quanto il gruppo di colleghi ci offra la possibilità di ripensare il nostro lavoro, ci permetta di mantenere nella nostra mente la continuità che ci hai così ben descritto, in qualche modo ci salva.

F.A.
Io penso che in ogni esperienza professionale questo sia importante, ma in special modo nel lavoro educativo.
Sì, abbiamo bisogno di essere “salvati” dall’altro che, proprio perché un poco più distante, vede di più.
La vista, a differenza degli altri organi di senso – che per entrare in funzione, chiedono vicinanza – per funzionare chiede distanza.
Noi dipendiamo gli uni dagli altri, non siamo autonomi, non siamo autosufficienti, senza l’aiuto dell’altro perdiamo un pezzo di esperienza, diminuisce la nostra capacità di comprendere.


20 Corso internazionale di formazione Audiation Institute “L’arte di educare alla musica secondo la Music Learning Theory di Edwin Gordon”.

21 SILVIA BIFERALE, La terapia del respiro. Dall’esperienza sensoriale all’espressione musicale, Roma, Astrolabio, 2014, p. 120.

22 Rêverie: dalla parola francese rêve, sogno. È uno stato mentale di calma, attenzione e capacità di accoglienza degli stati emotivi dell’altro. Nella teoria di Bion, la rêverie è la capacità di una madre di entrare in contatto con i bisogni primari del bambino, di contenere e comprendere anche i suoi stati di angoscia e di terrore restituendoglieli in una forma accettabile.

23 SILVIA BIFERALE, La terapia del respiro, op. cit. pag.119

24 SILVIA BIFERALE, La terapia del respiro, op. cit. pag.122

25 SILVIA BIFERALE, La terapia del respiro, op. cit. pag.121

26 SILVIA BIFERALE – RITA TOTI, in Psycomedia, 2007

27 SILVIA BIFERALE, La terapia del respiro, op. cit. pag.121

Breve bibliografia
PHILLIPS A., I no che aiutano a crescere, Feltrinelli,1999.
MIELI G., Il bambino non è un’elettrodomestico, Feltrinelli, 2011.
Apprendere dal bambino, a cura di M. FRANCESCONI e D. SCOTTO DI FASANO, Borla, 2009.
RECALCATI M., Ritratti del desiderio, Raffaello Cortina Editore, 2012.
MAIELLO S., Gioco e Linguaggio, Astrolabio, 2012.

L’intervista Il rapporto tra processi di apprendimento e relazione affettiva è estrapolata dalla Rivista Audiation n. 6/2018